Mediterraneo e accoglienza



Il Mediterraneo sanguina
Il Mediterraneo oggi sanguina: sanguina in ragione dei numerosi morti – oltre 1500 quest’anno, 2000 nel 2022, 3000 nel 2023; sanguina per i 30 morti negli ultimi dieci anni e dei 50.000 morti che dormono nel “cimitero del Mediterraneo” negli ultimi 30 anni, riposando in fondo al nostro mare: “uomini e donne come noi” – ha ricordato papa Francesco; sanguina in ragione dei numerosi respingimenti in Tunisia e in Libia, in particolare, che riportano le persone nei campi o nel deserto a soffrire nuovamente e a morire; sanguina anche per numerosi sbarchi, che hanno superato le 150.000 persone lo scorso anno e hanno superato le 58.000 persone in questo anno. Sanguina anche perché sul Mediterraneo si affacciano Paesi quali Israele, Palestina, Libano, Siria, Turchia e gli Stati dell’Africa mediterranea (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto), dove imperversa la guerra, la dittatura, con sofferenze, torture e morti. Mentre piangiamo queste morti, vergognandoci per non aver gridato abbastanza i loro diritti, attorno a noi abbiamo sentito, in questi dieci anni parole di rifiuto, quasi di guerra per loro: “bombardiamo”, “respingiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamo”, “non riconosciamo”, “non accogliamo” mentre una sola parola dovevamo pronunciare: “vergogniamoci”.

Mediterraneo armato
Nonostante il sangue e acqua del Mediterraneo crocifisso, continua la corsa agli armamenti. Le spese per gli armamenti – secondo il rapporto SIPRI - sono aumentate del 3,7% rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 2240 miliardi di dollari, il livello più alto mai registrato. Sono i Paesi europei quelli che hanno fatto registrare un aumento percentuale più alto rispetto all’anno precedente (+13%), mentre la Russia ha incrementato la sua spesa militare del 9,2%. Gli Stati Uniti rimangono il Paese che spende di più nella corsa agli armamenti, ma rispetto all’anno precedente si è registrato “solo” un aumento dello 0,3%. In termini di trasferimenti internazionali di sistemi d’arma convenzionali (major arms), ai primi posti come esportatori si confermano gli Stati Uniti (nel periodo 2018- 2022 con una quota pari al 40% del volume globale) e la Russia (16%), seguiti da Francia, Cina e Germania. Mentre in sesta posizione si conferma l’Italia (3,8% del volume globale, in crescita rispetto al 3,1% del periodo
2017-2021), subito prima del Regno Unito (3,2%). Il nostro Paese nel periodo 2016-2020 occupava solo la 10a posizione, con il 2,2% dell’export globale. Nel quinquennio 2018-2022 la lista mondiale dei 10 clienti principali (cioè importatori) di sistemi d’arma continua ad annoverare quattro Paesi che con un eufemismo sono da classificarsi particolarmente “a rischio” sotto il profilo del rispetto dei diritti umani: Arabia Saudita, Egitto, Cina e Pakistan. L’Egitto ha come secondo principale fornitore l’Italia (prima della Francia): da solo, il Belpaese totalizza un quinto dell’import egiziano. L’Egitto occupa la seconda posizione anche se si guarda al nostro export (23% dell’export italiano); qui il primo Paese e il Qatar, il terzo la Turchia. Le armi italiane viaggiano nel Mediterraneo.
L’unica regione in cui la spesa militare è diminuita è l’Africa, con un meno 5,3% dovuto per gli armamenti. Meno spese per gli armamenti - che quest’anno e per cinque anni aumenteranno in Italia di 3 miliardi - e più spese per l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati – oggi ferme a un miliardo e 700 milioni sarebbe un segno di cooperazione e di democrazia nel Mediterraneo.

Mediterraneo luogo di sfide globali
Il Mediterraneo si conferma come un luogo di sfide globali complesse, dove si sovrappongono guerre, interessi per la gestione delle risorse naturali e dei confini. Nei prossimi 20 anni, si stima che oltre 250 milioni di persone avranno problemi di approvvigionamento idrico, con conseguente aumento della conflittualità tra i popoli ed esodi di massa. La siccità e già molto sentita in Nord Africa e nel Medio Oriente. In Africa, inoltre, gli scontri per la proprietà dei terreni agricoli e del bestiame incidono su quelle che erano le migrazioni stagionali, le cosiddette transumanze, sostituite oggi da sfollamenti forzati di chi non ha più mezzi di sostentamento. Il caos climatico nel Mediterraneo sta già stressando Paesi estremamente fragili, dove le crisi sempre più spesso mutano in conflitti e flussi migratori forzati. Le questioni ambientali costituiscono sempre di più anche problematiche di giustizia sociale e di diritti, con un impatto reale già sulla vita di milioni di persone nel mondo.
Proprio per questo non è sufficiente parlare di transizione verde, ossia di ridurre gli impatti del nostro stile di vita sul pianeta attraverso l’impiego di soluzioni tecnologiche. E invece necessario un cambiamento radicale (una conversione) di quegli stessi stili di vita, puntando a sovvertire le dinamiche di dominio, produzione e accumulazione alla base dei conflitti, incoraggiando scelte di connessione tra i popoli e la pace. va tenuto conto che i territori più impattati dai cambiamenti climatici sono gli stessi dai quali i rifugiati scappano a causa dei conflitti armati, dove persecuzioni, violenza e diritti umani negati sono maggiormente perpetrati. Motivazioni che la Convenzione di Ginevra, all’Art.1, menziona per il riconoscimento dello status di rifugiato. In tale scenario, al fine di estendere la protezione internazionale, e necessaria una rilettura del concetto di violenza che deriva anche dalla crisi ecologica e dallo sfruttamento di risorse naturali strategiche, situazioni che a loro volta portano violazione dei diritti.
Una politica che ha al centro il bene comune e che non può escludere, dimenticare, tradire “le attese della povera gente”, come ricordava Giorgio La Pira in un suo bellissimo testo. Una politica che allarga e non restringe i confini, che riconosce nell’Europa la casa comune, per costruire il mondo come una casa comune. Una politica che non può rinchiudere, ma aprire, allontanare, ma avvicinare e avvicinarsi, per prendere per mano chi è più indifeso. Anche in questo nostro Mare Mediterraneo, mare europeo, mare che collega le sponde dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia; mare dove hanno navigato persone delle grandi religioni cristiana, islamica ed ebraica; il mare di Paolo e di Pietro, gli apostoli che ci hanno regalato il Vangelo della gioia e della pace.

Mediterraneo segno della cultura dell’incontro
Il Mediterraneo deve essere il luogo simbolo “ di una cultura dell’incontro” che educhi e permei le nostre città, il nostro Paese, l’Europa a “superare paure, pregiudizi, diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione” (CEI, Educare alla vita buona del vangelo,14), per costruire un mondo diverso, chiamato ad essere ‘casa comune’, per una sola famiglia umana. “Comprendo - scrive il Papa - che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri. Invito ad andare oltre queste reazioni primarie, perché «il problema è quando [esse] condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro» (F.T. 41).

Mediterraneo luogo di accoglienza
Nel 2021 abbiamo assistito a scene crudeli alle diverse frontiere sia terrestri che marittime dell’Unione europea, dove le persone in fuga da guerre e Stati al collasso (Siria, Iraq, Afghanistan) non sono riuscite a trovare accoglienza lungo la rotta balcanica, le navi con le persone appena salvate in mare sono state tenute fuori dai porti italiani, le persone in fuga fatte prigioniere tra la frontiera della Bielorussia e quella della Polonia. Addirittura, strumentalizzate all’interno di tensioni tra Unione europea e Bielorussia a cui la Polonia ha negato ogni aiuto, arrivando ad usare idranti e lacrimogeni per rimandarle indietro. Nel 2022, dopo la Seconda guerra mondiale e i conflitti nella ex-Jugoslavia (che hanno portato alla sua dissoluzione in tanti piccoli Stati nazionali con un grande carico di distruzione, morti e rifugiati), ci siamo di nuovo confrontati con una guerra nel continente europeo. L’aggressione della Russia all’Ucraina ha riportato nel cuore del continente un conflitto cruento che ha contribuito a portare i numeri delle persone in fuga e in cerca di protezione nel mondo oltre la soglia psicologica dei 100 milioni. A questa tragedia l’Unione europea ha reagito aprendo le frontiere e concedendo protezione ai cittadini ucraini in fuga, usando per la prima volta - dal 2000 - la categoria della protezione temporanea. Improvvisamente, proprio quei Paesi che dentro l’Unione europea si erano opposti più tenacemente alla possibilità di accogliere richiedenti asilo in fuga da altri contesti di guerre e conflitti (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), si sono trovati a essere i più esposti al flusso di persone in fuga dall’Ucraina e in questo caso non hanno esitato non solo ad aprire le frontiere ma in molti casi anche le porte di casa. Anche in Italia l’arrivo di più di 170.000 persone dall’Ucraina non ha messo in crisi il sistema di asilo e di accoglienza: nella maggior parte dei casi le persone - soprattutto donne e bambini e solo in misura inferiore uomini (visto che per la legge marziale gli uomini tra i 18 e i 60 anni non hanno potuto lasciare il Paese a meno che fossero padri di almeno quattro figli) - hanno richiesto e ottenuto rapidamente la protezione temporanea, e con essa un documento che permetteva loro di accedere alla sanità, alla scuola e al lavoro senza dover fare domanda d’asilo; pur con alcuni limiti, hanno anche ricevuto fondi per rimborsare le persone della comunità ucraina (ricordiamo che in Italia vive da ben prima dello scoppio del conflitto la più grande comunità europea di ucraini, che conta quasi 250.000 persone) che sono state le prime e più numerose ad aprire le porte di casa per i familiari o gli amici in fuga. Grazie alla direttiva sulla protezione temporanea gli ucraini hanno potuto muoversi liberamente in tutti gli Stati europei, raggiungendo il luogo per loro più significativo o che pensavano potesse offrire possibilità migliori. E sempre grazie a questa libertà di movimento hanno potuto e possono andare e tornare dall’Ucraina per monitorare la situazione di familiari e beni rimasti in patria, senza perdere il diritto agli aiuti e alla protezione.
L’Unione europea si è rivelata accogliente nei loro confronti e ha provveduto anche a valorizzare i titoli di studio, provando ad inserire le persone direttamente negli ospedali, nelle università e negli altri luoghi di lavoro a seconda delle loro capacità e professioni. Tutte cose giuste e positive, ma che per il momento non sono state estese a tutte le altre persone richiedenti asilo e rifugiati che continuano a scappare da altre crisi e guerre nel mondo, benché non meno cruente o drammatiche.
Questo trattamento così differenziato per persone che vivono le stesse tragedie stride con il principio di equità e non discriminazione che dovrebbe governare le politiche europee e fa pensare più a uno stato di apartheid che a uno stato di solidarietà e giustizia.
Nel 2023 tutte le guerre iniziate nel 2022 proseguono e ad esse si sono aggiunte le drammatiche tensioni in tutto il Medioriente, con il riaccendersi dello scontro tra Hamas e Israele, colpito da un feroce attacco terroristico cui è immediatamente seguita la scelta impietosa di mettere a ferro e fuoco la striscia di Gaza, lasciando anche senza luce e senza acqua quasi due milioni di persone. Il numero delle vittime civili palestinesi, la stragrande maggioranza minori e addirittura neonati in fasce, ha già raggiunto un numero altissimo. E con il perdurare del conflitto, viene da chiedersi se a qualche palestinese verrà prima o poi concessa la scelta di fuggire e rifugiarsi in un Paese sicuro in cerca di protezione, oppure se saranno condannati a rimanere intrappolati nella striscia ormai allo stremo, tra morte, distruzione e violenza generalizzata.
E mentre guerre e conflitti continuano ad estendersi nel 2024 – 56 conflitti nel mondo - , rendendo improbabile una imminente contrazione del numero di persone bisognose di protezione, l’ Unione europea prima della chiusura della legislatura nel 2024 ha approvato il patto asilo ed immigrazione che porterà a un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati, già negli anni messi a dura prova con l’incremento delle procedure di frontiera e la contrazione dei tempi dei ricorsi e l’estensione delle liste dei Paesi sicuri, senza che d’altra parte aumentassero i numeri dei reinsediamenti o che si aprissero canali legali di ingresso, con il rischio che i migranti siano fermati in acque internazionali e deportati in Paesi extraeuropei, come ha deciso di fare l’Italia in Albania. Ha scritto Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti: “Tanto da alcuni regimi politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti. Al tempo stesso si argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e decidano di adottare misure di austerità. Non ci si rende conto che, dietro queste affermazioni astratte difficili da sostenere, ci sono tante vite lacerate. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri, con pieno diritto, sono «alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi» (F.T. 37). E se la solidarietà è il nuovo nome della pace – come diceva S. Giovanni Paolo II – soltanto un Mediterraneo luogo di solidarietà e di accoglienza e non luogo di guerra, armato, di respingimenti e di morte, non un muro, ma una strada diventerà segno di pace.


Consiglio dei Giovani del Mediterraneo - Palermo 07/11/2024

Commenti

Post popolari in questo blog

La solitudine del malato non aiuta la cura

Cooperare è contribuire a costruire un mondo fraterno

In Ospedale si vive continuamente il mistero dell’Incarnazione